10.9.12

Andare in guerra senza saper sparare: note sul lessico della pianificazione



Emerald Necklace, Boston
 
 
“ Mettere a sistema spazi urbani”, “sistema dei parchi”, “landscape architecture”, “planning” …

A volte capita di trovarsi accidentalmente in una “rissa” di parolai, cadendo alla mercé di bagagli di conoscenza infimi che vantano di “sapere” ciò di cui stanno parlando e che si arrogano il diritto non solo di sminuire l’intelligenza del malcapitato (che non padroneggia ancora la finta comprensione di quel linguaggio per cui non ha modo di poter costruire inutili e spaventevoli tautologie adatte a competere con quelle che gli vengono sparate contro) ma con presunzione lo invitano ad informarsi su ciò da cui loro attingono, ovvero un irrisorio bagaglio di sapere, con il risultato di tenere al sicuro la loro posizione di “superiorità” intellettuale.
Fortunatamente, altre volte, capita di imbattersi per vie traverse in materiali e bagagli di conoscenza che hanno le potenzialità per distruggere le finzioni dei parolai, o per lo meno di sostanziare il linguaggio da loro usato, consentendo ai malcapitati  di discernere un minimo i contenuti del discorso.

In questo caso oggetto della rissa è la materia urbanistica. I malcapitati, che si trasformeranno forse un giorno nei loro carnefici ex cathedra, sono gli studenti delle facoltà di architettura. Il materiale, da prendere in esame perché sia possibile anche che questo non succeda, è tratto dal libro “La Città Americana dalla guerra civile al New Deal”, che raccoglie quattro saggi di Giorgio Ciucci, Francesco Dal Co, Mario Manieri-Elia, Manfredo Tafuri.
Ebbene, le espressioni inizialmente riportate,  che è capitato più volte di sentire in queste “risse”, si trovano nel saggio di Dal Co, al momento in cui parla di Frederick Law Olmsted.
Dal Co nel saggio sta parlando di una certa cultura progressista americana che a partire dalla seconda metà dell’ottocento sviluppa una strategia di intervento a scala urbana che passa tramite la progettazione di parchi pubblici.

La città americana dell’ottocento è sostanzialmente un’aggregazione di edificato frutto della speculazione edilizia legata alla presenza di nodi infrastrutturali attraverso cui la merce ha modo di essere messa in moto. Rimane del tutto assente o marginale la preoccupazione per una qualità minima dello spazio urbano. I pochi tentativi di intervento vengono portati avanti solo in alcune città dai cosiddetti “bosses” , tra l’altro con il rischio costante della bancarotta.
Olmsted dunque si scontra con questo scenario della città americana.
Le prime occasioni di rilievo sono la partecipazione alla progettazione  del Central Park, negli anni 50 dell’ottocento, e del Brooklyn Park a Prospect Hill, negli anni 60-70, entrambi grandi parchi urbani inseriti nel tessuto edilizio di New York.

Dal Co descrive questi due interventi:  il primo, Central Park, come la prima attuazione dell’idea di ricomporre la distanza tra la città della speculazione e la natura,  portando un frammento di natura (o meglio di landscape progettato secondo i canoni del “romantic planning” già sperimentato per i cimiteri rurali all’esterno della città) all’interno della città, dentro la griglia di Manhattan; il secondo, Brooklyn Park, come un frammento di natura progettato che, oltre a ciò, assume con la sua forma, la sua dimensione, i suoi bordi, una valenza di “vincolo urbanistico” (cit. Dal Co): il progetto di questo parco è affrontato mirando a riorganizzare con esso la struttura viaria e con l’idea dei progettisti di poter finanziare l’operazione con l’accrescimento del valore degli immobili dell’area, dato l’aumento della qualità urbana.
Ne risulta un primo tema: il parco è un fatto urbano che per la sua importanza ed estensione potrebbe essere usato come operazione di risistemazione urbanistica e, a seconda della dimensione che viene ad assumere, come operazione di pianificazione a livello non solo urbano ma addirittura territoriale.
Questa teoria, che potrebbe essere usata tale e quale per spiegare i masterplan a scala urbana-territoriale dei più illustri studi di architettura a noi vicini (tipicamente la tavola con la città rappresentata in scala da 1:10000 a 1:1000 con la super campitura di verde che attraversa il tessuto urbano con alberi, percorsi e volumi al suo interno), viene messa sul banco di prova nelle sue più estreme conseguenze già da Olmsted nell’ottocento.

Dal Co descrive, oltre i progetti dei parchi di New York, un altro progetto assai interessante per la sua scala, conosciuto oggi come Emerald Necklace, a Boston. Olmsted diviene consulente nel 1875 della Park Commission di Boston istituita dal consiglio cittadino con l’idea di formulare una proposta per un complesso urbano di parchi. L’intuizione di Olmsted fu di utilizzare un’arteria  del sistema idrogeologico del territorio su cui è situato Boston, il Back Bay Fens, come “un nodo urbano” (cit. Dal Co), riconoscendo questa struttura del territorio come parte del tessuto urbano, determinandone  l’organizzazione della maglia.
Dunque emerge un secondo tema (anche questo tema come il primo è oggetto di disputa nelle “risse” di cui abbiamo parlato sopra): la considerazione delle strutture geologiche territoriali non come cesure nella città ma come parte della forma urbana ad essa strettamente connessa.
Giunto a questa conclusione il piano di Olmsted  propone di sviluppare una serie di parchi strettamente collegati a partire da questa struttura d’acqua preesistente sino ad inserirsi in profondità nel tessuto urbano ricollegando inoltre episodi urbani rilevanti come il cimitero di Forest Hills. Ne risulta un “sistema di parchi” (cit. Dal Co), un unica Parkway a scala urbana-territoriale. Quest’immagine rimane talmente impressa nella storia del planning ed è così feconda da essere oggi costantemente riproposta nei progetti e nei concorsi di pianificazione urbanistica come “parchi lineari”, “parchi fluviali”, “waterfront” ecc. , in tutte le forme e declinazioni.
Scrive Dal Co: «A Boston il sistema dei parchi è la prima espressione dell’esigenza di formulare un piano urbanistico complessivo, e di una cultura che ha ormai superato la fase denunciatoria e che va arrogandosi la prerogativa di offrire realistiche ipotesi per la ristrutturazione urbana» (pp.184); Olmsted mostra al mondo un modo di riservarsi, nella feroce competizione della speculazione edilizia della città, uno spazio di azione (la progettazione del parco) che con la sua potenziale espandibilità a livello territoriale può offrire realisticamente una prospettiva di miglioramento della qualità urbana.
E ancora, sui principi del planning derivati da Olmsted, Dal Co dice: «Perseguendo e insegnando il rispetto delle grandi virtù democratiche, tra le quali primeggia l’amore e la considerazione della natura, il planning fa sì che la natura non sia violentata dall’ambiente umano, ma che vi entri organicamente come elemento costitutivo» (pp.185); la carica ideologica, che fornisce al parco tanto “appeal” sulla società da lasciare che questo venga espanso su scala territoriale sino a diventare occasione di riforma urbana, è data da un presupposto culturale che ripone nel rapporto dell’uomo con la natura il fondamento della moralità, per cui qualsiasi rottura di questo rapporto è da considerarsi immorale, una violenza. Dal Co intende probabilmente riferirsi in proposito a quella cultura americana, di cui Olmsted faceva parte, che affonda le sue radici nel trascendentalismo, al Golden Day di cui parla all’inizio del saggio, ma viene da chiedersi se questa cultura, nel tempo, non abbia in qualche modo superato i confini dell’America, se si pensa al significato attuale e alle conseguenze (dagli esiti a volte caricaturali a volte estremamente seri)  di ciò che chiamiamo “ecosostenibilità”.

Emerald Necklace, "Plan of portion of Park System from Common to Franklyn Park" , Olmsted e Eliot, Landscape Architects, 1894, Boston


In conclusione, per esprimere ciò che non può essere detto ma solo capito attraverso l’osservazione attenta sul perché Frederick Law Olmsted dovrebbe essere il primo riferimento sul quale i malcapitati nella “rissa” di discorsi da “urbanisti esperti”  dovrebbero essere indirizzati per comprendere il linguaggio del planning e le espressioni riportate in apertura dell’articolo (da conoscere prima delle migliaia di masterplan per tutti i gusti che si possono trovare su Europaconcorsi e prima di progetti di concorso illustri come quello della Grand Paris), si rimanda alla visione delle carte dei piani di cui detto e in particolare della carta dell’Emerald Necklace di Boston.  Si invita inoltre a porsi delle sane domande a considerazione del fatto che sia proprio questa strategia d’intervento, elaborata a fine ottocento per la città americana del tempo, ad essere riproposta in molti masterplan attuali per le città del nostro tempo americane e non.




NOTA:
si rimanda, riguardo l' Emerald Necklace di Boston al seguente link:

riguardo la fonte bibliografica dell'articolo si rimanda al libro

La città americana dalla guerra civile al New Deal, Giorgio Ciucci, Francesco Dal Co, Mario Manieri-Elia, Manfredo Tafuri, 1973, Roma













25.8.12

un certo savoir-faire

Un certo savoir-faire...from China.
Il video è molto cinematografico; ma è carico di significato come l'edificio stesso. Un parallelo chiaro e forte, a contatto con la storia e la tradizione di un popolo.

http://vimeo.com/29317081

MAD architects, from china. Dimostrano un certo gusto e una certa professionalità "da grandi". Eppure sono giovani, ma guadagnano visibilità lentamente. Dimostrando un certo savoir-faire
http://www.i-mad.com/#works_details?wtid=2&id=33

26.7.12

L'unica cosa che ho capito è che non ho capito nulla: perchè l'architettura è un nano da giardino.


Che cos’è l’architettura?
Chiedersi se, ora come ora, si potrebbe dire di saper rispondere a questa domanda.
Dubbio lecito sia dello studente di architettura sia dell’architetto affermato.
Curiosità per chiacchiere da bar dei non addetti ai lavori verso gli addetti ai lavori, ma anche degli addetti ai lavori in situazioni come al bar.

La domanda ricorre frequente, così, in questo spazio virtuale, si invitano tutti i naviganti del world wide web a scontrarsi con la realtà architettonica presente, per espandere i campi di risposta al quesito.
La speranza è che questo scontro ponga agli architetti, ma soprattutto ai giovani architetti, per non dire agli architetti futuri, il materiale contemporaneo necessario a comprendere lo stato dell’arte, per far sì che anche in futuro ci possa essere uno stato dell’arte.
L’obbiettivo dunque è l’alimentazione di una critica contemporanea, o meglio di un ambiente contemporaneo autocritico che nel tempo sia in grado di creare una realtà architettonica. Per non essere troppo ambigui, si intenda in questo senso tutto ciò che riguarda l’architettura, dalle storie dell’architettura, ai progetti di architettura, all’architettura delle città, agli architetti.
La dinamica voluta dell’operazione è semplice e quasi prevedibile, visto che questo non è che l’ennesimo tentativo di analisi, antitesi e sintesi che gli ennesimi “discendenti delle avanguardie” cercano di imporre alla realtà del mondo in crisi perpetua.
I precedenti storici sono perciò, non troppo velatamente, futurismo, surrealismo, dadaismo, espressionismo, postmodernismo, decostruttivismo…tutto ciò che finisce con “ismo” e/o che abbia un manifesto.
I dubbi, anch’essi parte dei precedenti storici, si concentrano soprattutto sul momento della sintesi che sembra non essere mai possibile perché, come ha affermato Cacciari, traducendo barbaramente, la crisi è parte della realtà stessa e dove non viene riconosciuta (quando si afferma di averla superata o di volerla superare) la realtà viene meno.
Insomma l’impresa è disperata, non c’è idea o discorso che tenga troppo a lungo davanti a tutto ciò.
Ma, c’è un “ma forse”.
D’altronde se ci si mette davanti a una superficie con un utensile in mano e si inizia ad intaccarla senza alcun motivo apparente si potrà dire che “si è fatto qualcosa”, e se anche dopo venisse a mancare il soggetto per cui l’azione è stata possibile ci sarà sempre su quella superficie qualcosa .
Ora, allegoricamente, cosa potrebbe essere questa superficie non è restrittivo al momento, perciò si potrebbe dire che ciò che è qua, presente, nel blog, sarà qualcosa nella memoria o nel subconscio di qualcuno che lo vede, oppure che dei risultati tangibili a cui questo ambiente autocritico potrebbe portare (come la formazione di una comunità che sviluppa un progetto e lo porta a realizzazione, o la produzione di opere artistiche, o la stampa di una pubblicazione cartacea…) saranno ulteriori superfici su cui verranno fatti altrettanti qualcosa nel futuro.
Perciò la partenza che vi proponiamo internauti è questo qualcosa:
“L’Architettura è un nano da giardino” , come dada nato da un suono inarticolato pescato a caso, come un cadavre exquis surrealista che inizia dall’accostamento dei significanti, come un movimento architettonico futurista, però con centomila manifesti introduttivi scritti ognuno come un nuovo inizio che si susseguono senza mai concludere veramente, come fa un pensiero postmoderno…ecc.
Mettiamo insieme il diavolo e l’acqua santa: l’Architettura con la “A” maiuscola che le accademie insegnano conferendole quell’aura sacrale nel momento in cui il professore giudica mediocremente il progetto dell’allievo e l’allievo, futuro architetto, immagina a quale sommo prodotto sarebbe dovuto arrivare, oppure, ancora, che gli scrittori di architettura citano per contrapporla a un progetto realizzato da altri ma non gradito, per i più svariati motivi; e poi il nano da giardino, l’oggetto seriale della cultura pop, l’oggetto kitsch, che deve stare nel giardino, immerso nell’ambiente architettonico, a dare una connotazione all’essenza dell’architettura, il vuoto, l'oggetto demonizzato, l'oggetto che non ci piace, ma che sta lì a nostro dispetto, come solo sanno fare alcuni orribili palazzoni delle nostre sterminate periferie, in cui però, nonostante tutto, viviamo.
E dunque aspergiamo l’acqua santa, l’Architettura con la “A” maiuscola, e facciamo gli avvocati del diavolo, il povero nano da giardino, bandito persino come elemento deturpatore del paesaggio (fatto realmente accaduto nella costiera amalfitana…vd. articolo “Nanifesto retroattivo” ) ma che qualcuno avrà pur messo anche se con lo spirito semplice di “fare qualcosa”.

Sperando di aver reso manifesti, ancora, parte dei motivi del “Nano” (una domanda iniziale, una dinamica voluta, una prospettiva sperimentale sull’ingiustificazione “fare qualcosa”) si invita chiunque abbia un qualcosa sommabile al qualcosa di base “l’Architettura è un nano da giardino”, a farlo.

P.S. il blog è aperto a condividere articoli, idee varie ecc. esiste una pagina fb  sulla quale si possono postare in bacheca liberamente e sulla quale si possono proporre pubblicazioni sul blog:
quindi dite la vostra. stay tuned. consciously.

25.7.12

learning from 'lezioni taciute'; (o smisurata preghiera)



Mettere in dubbio opere del passato,seppur silenziose e dal dubbio valore, e ricercarne un presunto valore è la costante dello spirito critico. 


Analizzare estrapolando i particolari costruttivi,le povere tecniche di realizzazione. 
Per valutare criticamente ciò che gıà è stato costruito e, volente o nolente, costituisce parte del nostro patrimonio architettonico. 
E qui nascono altre domande: quanto è cambiato da allora? si costruisce ancora in riva al mare, si specula e si discute ancoradi piani,di politiche, di salvacoste come quasi fosse la manna dalcielo (per quanto se ne auspichi un corretto e fruttuoso uso, di piani&politiche).


...Ma qualche cambiamento 'a monte',no ? 


Qualche presa di consapevolezza,qualche decisa risposta all'ignoranza e a molti problemi?
Qualcosa di piccolo,ma che se moltiplicato,costituisca la base del cambiamento collettivo.


Attivare lo sprito critico, smisuratamente. 


[...la preghıera,l ınvocazıone, sı chıama smısurata,proprıo perche e fuorı mısura. e quındı e probabılmente non sarà ascoltata da nessuno. ma noı cı provıamo lo stesso  ] F.dı A., dıscorso sulle maggıoranze [e sul cambıamento,ndr]


In tempi di crisi,necessità ,mancanze economiche e truffe globalizzate, mai spegnere lo sprito critico, mai occorre farlo sopperire a pratiche necessità; mai credere che spegnere il cervello possa essere un'risparmio energetico' che possa salvarci da crisi,necesiıtà,mancanze economıche e truffe globalizzate.
Perchè il nemico della mente, di una certa diffusa e globalizzata inedia architettonica,è troppe volte l'ignoranza,l`assenza di spirito critico, l' incapacità di saper guardare oltre brevi previsioni, corti investimenti: la miopia.
Perchè, quasi ingenuamente, un pò di no,un pò di sprito critico, meno 'miopia' generalizzata, possono essere una via,una salvezza. Seppur smisurata.


P.S.
http://www.youtube.com/watch?v=tNMll_7YsSE


E' una canzone sulla maggioranza,la maggioranza 'che stà come...'. e sulla speranza di un cambiamento.
E' da associare alla lettura come un vino bianco con una portata di pesce. 


Dom Cobb.

22.7.12

Lezioni taciute. Antoni Simon Mossa.


Antonio Simon Mossa..?
Chi era,e che ha fatto?
E' un nome che si sente,nelle facoltà, negli insegnamenti,nelle bibliografie?


E' un interrogarsi sul passato, e compararlo al futuro, e vedere ciò che può "dare" di buono oggi.


Non una lettura architettonica di finitura interstiziale, non una bibliografia completa, non un corso su esso incentrato Ma una figura poliedrica come la sua può essere uno stimolo che non è molto comune. Non ci si inciampa facilmente, su un architetto, intellettuale,politico. Sardo,in Sardegna, terra che ha conosciuto più professionisti dotati di professionalità che Architetti praticanti l'Architettura. Scomparso prematuramente per malattia.
Anni di carriera,studi e impegno di un architetto. Che ebbe modo di conoscere il mondo.
Carriera che pare anacronistica, se vista oggi....e piena di un impegno che va oltre la forma,oltre l'edificio.
Forse troppo schierato politicamente e intellettualmente? parlare di contenuti intellettuali oggi....
Il 68 sardo,in alcune sue declinazioni, passò in buona parte per lui: 


"Quella libertà si chiama indipendenza politica ed economica e giustizia sociale: libertà che significa che i sardi debbono essere prima di tutto padroni della loro terra, arbitri dei loro destini."
(dal discorso a San Leonardo de Siete Fuentes del 22 giugno 1969)


http://www.sardegnaeliberta.it/docs/simon_mossa.pdf
E parole identitarie,parte del suo lascito, possono avere un peso. Intellettuale,politico, o altro. 




E il suo lascito architettonico? 
   




Partendo dal contesto e dall'epoca di costruzione delle opere...
può esso avere un peso o essere ridotto a "cose vecchie,roba brutta"? 
Può spesso essere confuso con una tanto ribadita mediocrità del contesto tipico dei centri abitati sardi? 
O la ricerca di alcuni fattori, di alcuni elementi architettonici dell entroterra, dei ballatoi, degli elementi lignei, degli archi catenari e a sesto acuto, l'intersecarsi dei volumi....può essere considerato un valore aggiunto, per l'architettura? Una lezione da imparare?


Il "Palau de Valencia" nel lungomare Valencia ad Alghero, così come il vicino hotel Balear, possono essere considerati tentativi o lezioni? Eclettismi di una vita breve ma intensa o esempi di "già fatto"?
"Cose messe li per pura estetica", "lavoro ragionato", sono considerazioni successive. Una volta appurato il lascito. 
Un ultima,ennesima domanda. Cosa ci perdiamo, non conoscendo il lascito e l'impegno su più fronti di una figura simile,che pare così lontana da un "architetto intellettuale" odierno?


Dom Cobb.


NANIFESTO RETROATTIVO


"Crociata anti-nano da giardino sulla Costa Amalfitana" : antefatto a posteriori, ovvero casus belli scoperto dopo per caso

si rimanda all'articolo del link:
http://fioriefoglie.tgcom24.it/wpmu/2010/07/15/crociata-anti-nano-da-giardino-parla-lautore/

7.7.12

ARCHITECT'S DREAMS

Dai salotti ottocenteschi ai set della cinematografia fantascientifica,
il pasticcio architettonico storicista ieri e oggi.






















"The Architect's Dream", Tomas Cole, 1840, Toledo Museum of Art
si rimanda a: http://www.explorethomascole.org/tour/items/91/about























"The Professor's Dream", Charles Robert Cockerell, 1848, Royal Academy of Arts
si rimanda a:  http://bldgblog.blogspot.it/search?q=the+immersive+future+of+architectural


Interno nave madre dei visitors (background), serie televisiva "Visitors", 2009, ABC TV
si rimanda a: http://www.fxguide.com/featured/V_Returns_with_Zoic_V-FX/


 P.S. L'intenzione di questo principio di "patchwork" sul pasticcio architettonico, forse anch'esso un pasticcio per l'accostamento di materiale decontestualizzato qui presente, è di porre all'attenzione del lettore-osservatore possibili questioni sollevate dall'accostamento dei tre esempi citati.
L'ipotesi è che il materiale presentato sia comparabile e dunque se ne possa costruire una critica a partire dal tema comune del "pastiche".
La critica si svilupperà in seguito all'individuazione degli elementi di cui i seguenti pasticci si compongono, elementi di repertori storicistici classici, antichi, moderni e futuristici, che convivono nelle immagini grazie alla cessione di parte della loro individualità e acquisizione dell'aria complessiva, della luce che ne consente la visibilità.
Come ben espressero Cole e Cockerell, qui si parla di SOGNI. I pasticci architettonici sono i sogni dell'architetto, sogni di architettura che nell'interpretazione richiederanno e formeranno una conoscenza dell'architettura dei (nei) sogni.

22.4.12

Amor novi

Quando il portafoglio inizia a sgonfiarsi e il pane si fa sempre più caro, si restringe la capacità di guardare oltre le nubi, oltre le quali c'è un sole immenso. Sta ad ogni individuo, nella vita e nella sua professione, dare il proprio contributo al rinnovamento sociale. Spesso e volentieri quello che ci serve sono nuovi occhi, nuove prospettive, idee fresche e il coraggio di investire su di esse.
Ognuno però in cuor suo sa, per propria esperienza, che è difficile abbandonare le vecchie abitudini. Ci vuole uno stimolo, un'energia molto forte per cambiare; allo stesso modo in cui avviene nei legami tra gli atomi, anche noi abbiamo bisogno di profonde e forti motivazioni per sganciarci dai nostri consolidati legami. E allora, architetti cari, arrivo al punto: sta a noi creare l'energia di cui abbiamo bisogno per credere nel nuovo, nel rinnovamento. Perché a noi? Perché noi trattiamo con lo spazio, con l'elemento immediatamente percepibile dall'uomo. Come il tempo, egli non ne può fare a meno; che egli ci viva dentro o che questi due aspetti (spazio e tempo) siano una sua proiezione mentale sulla realtà sta di fatto che sono le coordinate entro cui ci muoviamo, viviamo, giudichiamo ciò che ci piace da ciò che non ci piace; ciò che è positivo rispetto al negativo, e così via. Abbiamo quindi una responsabilità molto importante: quella di non perpetuare "spazi mummificanti", dove per mummificante voglio intendere la capacità di uno spazio di mantenere la coscienza appigliata alle sue consuetudini. Dico questo perché, per esperienza, ciascuno di noi sa che agli spazi associamo ricordi, pensieri, stati d'animo ed abitudini. Con questa consapevolezza dobbiamo sempre pensare ed operare nello spazio; con questa consapevolezza si manifesta in modo radicale l'importanza delle nostre scelte in Architettura. Non venite meno alla vostra responsabilità, architetti! a voi sta il coraggio di creare "spazi coraggiosi", prospettive nuove, che ispirino  e motivino anche (e sopratutto) i non addetti al lavoro ad apprezzare, a credere nel rinnovamento. I filosofi sono i pionieri del pensiero di generazioni molto avanti a quelle in cui vivono; le loro visioni si insinueranno nell'opinione collettiva a differenti livelli a seconda di della sensibilità di ognuno, in modi che non possiamo prevedere e con conseguenze ignote. Non verranno capiti dai più nel loro periodo, e decenni dopo verranno lodati per la loro lungimiranza. Che razza di vita.. eppure in questo senso anche gli architetti sono filosofi, perché condividono il peso esistenziale di vivere mentalmente nel futuro ma fisicamente nel presente. Vivono la crisi in prima persona. Sono per così dire, dei filòcoroi (filos=amore e choros=spazio). E questo contrasto genera l'energia che porta a compimento l'idea, letteralmente una discesa (o un'ascesa, dipende dai punti di vista) dalla mente alla terra: è l'idea che si materializza fisicamente. E' Architettura. Certamente stiamo parlando di coloro che sentono la vocazione, sentono la necessità e la responsabilità del loro fare, non certo dei palazzinari che hanno creato il paesaggio alienante delle periferie in cui viviamo. 
Ai filosofi il pensiero ed i concetti; agli architetti la materia e gli archetipi.
Siate architetti, siate onesti ed innovatori, perché nello spazio che creerete sta tutta responsabilità di influenzare le coscienze di ognuno verso il futuro; innestandogli fiducia, orrore o indifferenza. E quanto abbiamo bisogno di coraggio, di credere nel rinnovamento sociale e culturale nei nostri tempi, quanto oggi più che in passato...


Alfonso Menu

15.4.12

un altro pò di Ponti. Non guasta mai.

“L’Architettura come professione deve servire la società futura sul piano funzionale, tecnico, produttivo, economico: deve servire la felicita e le esigenze degli uomini sul piano della loro vita - aria, sole, salute, assistenza, lavoro: deve nutrire l’intelletto degli uomini sul piano dell’intelligenza e dello stile . unita, ordine, essenzialita; come arte deve nutrire l’anima degli uomini e i loro sogni sul piano dell’incanto - immaginazione, magicita, fantasia, poesia”

g.ponti, "Amate l'architettura"

how to get ideas.

http://www.incidentalcomics.com/2011/05/how-to-get-ideas.html

senza forzarsi più di tanto.

1.4.12

in un mondo più piccolo. giri l'angolo e sei in Tibet.

Un titolo alternativo sarebbe potuto essere: "Un mondo più piccolo, "cose" comuni a portata di mouse".

http://www.chinesearchitects.com/en/projects/detail_thickbox/34865/plang:en-gb?

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Progetti nel Tibet che potrebbero essere pensati e realizzati in terre simili alla sarda.
Oppure ovunque. Perchè?

La risposta la scrivano i professoroni.
Quel che interessa, e che può interessare a uno studente, è la riflessione su come migliaia di km di distanza possano rendere "vicina" un opera costruita a km di latitudine (e di altitudine); un risultato effettuale che appare annullare ogni distanza.
Con buona pazienza del Genius Loci.

Quel che interessa, e può interessare a un professionista, sono le difficoltà del fare architettonico in determinati contesti, e le varie difficoltà a esse correlate. Ma osservare uno spunto proveniente da migliaia di km più a est può essere utile a trovare nuova linfa.

 Inoltre.

Modificando lo sfondo e scrivendo "Centro tradizioni popolari, monte Limbara", sarebbe stata un opera credibile? Estranea al contesto? Ben fatta? Fattibile ovunque?
Certo, differenze di materiale, di pezzatura a parte.
Interrogarsi è fondamentale. La risposta è l'architettura stessa, bella o buona che sia.
Purchè non sia solo stanco gioco verbale.

27.3.12

Spazio Intellegibile


Quello che differenzia l’Architettura del passato (ovviamente?) dall’Architettura del presente non sono gli aspetti dello stile o delle forme. L’architettura del passato, l’architettura nel passato, di qualunque cultura fosse la manifestazione, si mostra come uno spazio intellegibile, quale che fosse il suo sistema costruttivo, compositivo, di stile.  Se da una parte questo fatto derivava dalle sicure garanzie che questa concezione fornisce alla distribuzione dei carichi che gravano sulla costruzione, dall’altro bisogna tener conto del forte significato simbolico di certe forme, che potremmo definire archetipi. Un significato che, sì, proviene dall’uomo e che quindi è il riflesso della sua mente, ma che stabilisce un contatto con l’archetipo in un tempo quasi istantaneo. A titolo di esempio, la linea orizzontale. Per essere ancora più astratti, poiché parliamo di archetipi, il concetto di orizzontale. Quanto può essere forte per l’uomo, in termini di significato, questo concetto? Forse è solo il frutto di intellettualizzazioni a posteriori senza fondamento, eppure trovo difficile non concordare sul fatto che, da quando l’uomo è diventato sedentario fino, almeno, alla rivoluzione industriale, egli  abbia trovato essenziale poter distinguere due luoghi distinti: quello della natura da quello della comunità. Quello dell’insicurezza da quello della sicurezza. Quello dell’ignoto da quello che è noto. Una distinzione netta, che fornisce un’informazione, a mio avviso, di indiscutibile importanza. Se accettiamo questa base, possiamo estendere il ragionamento all’intera composizione spaziale. Uno spazio identificabile, in cui l’ortogonalità distingue quel luogo in quanto si oppone visivamente alla casualità con cui si manifesta la natura. In cui degli elementi ben definiti si ripetono, si combinano tra loro, creano determinate prospettive inquadrando determinati scenari, siano essi urbani o naturali. Un’architettura che, insomma, definisce, nel senso letterale del termine, traccia un segno chiaro; se potesse parlare direbbe << Al di qua è ordine, al di là è altro>> Ecco cosa accomuna una pagoda cinese con ad un tempio greco piuttosto che al tempio Azteco.

Architettura come spazio intellegibile. Possiamo dire lo stesso dei nostri tempi?

Oggi, con la libertà offerta dai materiali e dalle tecnologie nuove, l’architettura si è svincolata dalla “necessità statica” che caratterizza questo tipo di spazio intellegibile. Il passo successivo, come è facile immaginare, è stato il separarsi da questo tipo di spazialità, una volta che l’esigenza costruttiva a cui era legata è venuta meno. Questo è sotto gli occhi di tutti, con intensità maggiore per chi vive nei grandi centri urbani. Così molto spesso oggi capita di trovare forme libere, dove “libero” è sinonimo di estremo, talvolta senza controllo; gratuito. Quello che, forse, non si è svincolato ancora è l’uomo dai significati che per secoli ha assegnato a determinati archetipi e nei quali è andato riconoscendosi nel corso del tempo.
Questa non vuole essere una invettiva contro le forme organiche o l’architettura degli ultimissimi anni. Tutt’altro. Bisogna però guardare le due facce della medaglia. La libertà estrema di espressione, se da una parte significa sviluppare ulteriormente l’architettura e farla evolvere nel tempo, dall’altra vuol dire anche che anche la gratuità ha maggior modo di dilagare. E quando ciò che è gratuito, non ponderato diventa fenomeno di massa, soprattutto in architettura, non è utile: è dannoso. Ha senso ricreare una giungla artificiale dopo che si è fuggiti da quella naturale, attraverso la creazione di uno spazio comprensibile e riconoscibile, passando dal disordine all’ordine, tutto questo altrimenti detto architettura?
Personalmente ho molte riserve nelle attuali dinamiche della società nei confronti delle Archistar, ricalcando in questo il pensiero di Vittorio Gregotti. Ritenendo l’architettura un lavoro che richiede tempo ed elaborazione, non vedo perché si debba a priori plaudere ad un progetto di un architetto celeberrimo, e non di colui che invece, umilmente, nel silenzio mediatico, ha la possibilità di sviluppare un buon progetto senza le tensioni che derivano dall’eccessiva visibilità. O ancora la possibilità dedicare tutto il tempo necessario perché non ha l’agenda affollata da altri impegni, per esempio. Un nome famoso non è sinonimo di un buon progetto, non necessariamente. Il buon progetto prescinde dalla fama, dalla moda formale, perché non sarà la fama a far stare in piedi la vostra casa né la forma  incredibile ma gratuita ad inserirsi in modo adeguato in un determinato contesto urbano.
Ecco: mettiamo l’accento sul progetto, meno sull’idolatria di chi lo ha concepito.
Sempre che riteniamo ancora che l’architettura sia un fenomeno sociale il cui fine è l’uomo e non viceversa, cioè che l’architettura sia un mezzo per la fama del singolo  sfruttando la visibilità sociale.



Alfonso Menu

1.3.12

Sardinia, metropolis is coming! (famous comics scene)


Zero gravity


Big hands, small thoughts, no words


ben-essere progettuale


Questo articolo non avrà niente di scientifico. Voglio invece parlare dell’aspetto terapeutico di questo mestiere.
Come ogni attività dell’uomo, ci sono due modi di praticarla: con amore o senza. Nella seconda categoria rientrano noia, dovere, costrizione etc..  Quando facciamo buona progettazione, se siamo coinvolti in quello che stiamo facendo in quel momento, ne risente positivamente la nostro spirito, nello stesso tempo la mente e la psiche. È un segnale che bisogna cogliere al volo. Perché abbiamo bisogno di questo “feedback” sensoriale per capire che direzione stiamo prendendo, così come il medico si basa sulle reazioni positive del paziente per capire che gli sta dando la giusta cura. E qui veniamo al secondo punto: come questo senso di benessere si può trasmettere da chi progetta a chi guarda; dall’architetto all’utente.
Io vivo nel secolo dell’informatica, dove i valori (se si può parlare ancora di valori, perché forse sarebbe più corretto dire priorità) si sono invertiti. Dove cioè che è armonioso è sinonimo di noioso, dove sorprendere è la parola d’ordine, dove la stravaganza della forma determina il successo sociale. Ma se l’architettura ha in sé il germe dell’eternità (che si manifesta quando  essa diventa rovina) allora bisogna difendere costantemente la propria alternativa a questa visione delle cose. A patto di averla, certamente: oggi ci vuole molto più fegato a difendere un cubo perfetto piuttosto che una forma affascinante ed autoreferenziale; la situazione si è invertita nell’arco di nemmeno 2 secoli. E non credo sia una coincidenza il fatto che a questa attitudine corrisponda una pressoché inesistente attività teorica da parte dei più tra gli architetti.
“L’Architettura nasce dai bisogni reali, ma essa va al di là di essi; se vuoi scoprirla, guarda le rovine.”
1923: l’architettura abbandona definitivamente l’ordine.
Quando abbandonerà allora il disordine?
Chi oserà costruire alternative al pensiero dominante del nostro tempo? A chi toccherà aprire la strada verso la nuova Architettura?  Chi avrà la volontà di proporre  nuovamente luce e ombra, pieno e vuoto e il rapporto di tutto questo? Ma sopratutto chi oserà dire (e fare): Armonia?

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