Quello
che differenzia l’Architettura del passato (ovviamente?) dall’Architettura del
presente non sono gli aspetti dello stile o delle forme. L’architettura del passato, l’architettura nel passato, di qualunque cultura fosse
la manifestazione, si mostra come uno spazio intellegibile, quale che fosse il
suo sistema costruttivo, compositivo, di stile. Se da una parte questo fatto derivava dalle
sicure garanzie che questa concezione fornisce alla distribuzione dei carichi
che gravano sulla costruzione, dall’altro bisogna tener conto del forte
significato simbolico di certe forme, che potremmo definire archetipi. Un
significato che, sì, proviene dall’uomo e che quindi è il riflesso della sua
mente, ma che stabilisce un contatto con l’archetipo in un tempo quasi istantaneo.
A titolo di esempio, la linea orizzontale. Per essere ancora più astratti, poiché
parliamo di archetipi, il concetto di
orizzontale. Quanto può essere forte per l’uomo, in termini di significato,
questo concetto? Forse è solo il frutto di intellettualizzazioni a posteriori
senza fondamento, eppure trovo difficile non concordare sul fatto che, da
quando l’uomo è diventato sedentario fino, almeno, alla rivoluzione
industriale, egli abbia trovato
essenziale poter distinguere due luoghi distinti: quello della natura da quello
della comunità. Quello dell’insicurezza da quello della sicurezza. Quello
dell’ignoto da quello che è noto. Una distinzione netta, che fornisce
un’informazione, a mio avviso, di indiscutibile importanza. Se accettiamo
questa base, possiamo estendere il ragionamento all’intera composizione
spaziale. Uno spazio identificabile, in cui l’ortogonalità distingue quel luogo
in quanto si oppone visivamente alla casualità con cui si manifesta la natura.
In cui degli elementi ben definiti si ripetono, si combinano tra loro, creano
determinate prospettive inquadrando determinati scenari, siano essi urbani o
naturali. Un’architettura che, insomma, definisce, nel senso letterale del
termine, traccia un segno chiaro; se potesse parlare direbbe << Al di qua
è ordine, al di là è altro>> Ecco cosa accomuna una pagoda cinese con ad
un tempio greco piuttosto che al tempio Azteco.
Architettura
come spazio intellegibile. Possiamo dire lo stesso dei nostri tempi?
Oggi,
con la libertà offerta dai materiali e dalle tecnologie nuove, l’architettura
si è svincolata dalla “necessità statica” che caratterizza questo tipo di
spazio intellegibile. Il passo successivo, come è facile immaginare, è stato il
separarsi da questo tipo di spazialità, una volta che l’esigenza costruttiva a
cui era legata è venuta meno. Questo è sotto gli occhi di tutti, con intensità
maggiore per chi vive nei grandi centri urbani. Così molto spesso oggi capita
di trovare forme libere, dove “libero” è sinonimo di estremo, talvolta senza
controllo; gratuito. Quello che, forse, non si è svincolato ancora è l’uomo dai
significati che per secoli ha assegnato a determinati archetipi e nei quali è
andato riconoscendosi nel corso del tempo.
Questa
non vuole essere una invettiva contro le forme organiche o l’architettura degli
ultimissimi anni. Tutt’altro. Bisogna però guardare le due facce della
medaglia. La libertà estrema di espressione, se da una parte significa
sviluppare ulteriormente l’architettura e farla evolvere nel tempo, dall’altra
vuol dire anche che anche la gratuità ha maggior modo di dilagare. E quando ciò
che è gratuito, non ponderato diventa fenomeno di massa, soprattutto in
architettura, non è utile: è dannoso. Ha senso ricreare una giungla artificiale
dopo che si è fuggiti da quella naturale, attraverso la creazione di uno spazio
comprensibile e riconoscibile, passando dal disordine all’ordine, tutto questo
altrimenti detto architettura?
Personalmente
ho molte riserve nelle attuali dinamiche della società nei confronti delle
Archistar, ricalcando in questo il pensiero di Vittorio Gregotti. Ritenendo
l’architettura un lavoro che richiede tempo ed elaborazione, non vedo perché si
debba a priori plaudere ad un progetto di un architetto celeberrimo, e non di
colui che invece, umilmente, nel silenzio mediatico, ha la possibilità di
sviluppare un buon progetto senza le tensioni che derivano dall’eccessiva
visibilità. O ancora la possibilità dedicare tutto il tempo necessario perché
non ha l’agenda affollata da altri impegni, per esempio. Un nome famoso non è
sinonimo di un buon progetto, non necessariamente. Il buon progetto prescinde
dalla fama, dalla moda formale, perché non sarà la fama a far stare in piedi la
vostra casa né la forma incredibile ma
gratuita ad inserirsi in modo adeguato in un determinato contesto urbano.
Ecco:
mettiamo l’accento sul progetto, meno sull’idolatria di chi lo ha concepito.
Sempre
che riteniamo ancora che l’architettura sia un fenomeno sociale il cui fine è
l’uomo e non viceversa, cioè che l’architettura sia un mezzo per la fama del
singolo sfruttando la visibilità
sociale.
Alfonso Menu
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